lunedì 17 agosto 2015

[arcobaleno d'inchiostro] - I VINCITORI!




Eccoci ad annunciare il vincitore della gara 6 del contest letterario Arcobaleno d'Inchiostro, sul genere HORROR.

Ben 28 racconti (tantissimi!) sono arrivati in redazione nonostante il periodo di vacanze estivo e di questo vi ringraziamo: vuol dire che il contest di Magla vi intriga e vi ispira! :-D


...Il giudice di questa sfida, Andrea Franco ci ha fatto una prima sorpresa inviandoci un suo racconto a tema che potete leggere qui o direttamente nella home page di questo blog!
Ha poi valutato i racconti e ha deciso i nomi dei vincitori. Parliamo al plurale perché c'è una nuova sorpresa! Quindi lasciamo a lui la parola... 


RACCONTI VINCITORI A EX-AEQUO

 

INTORNO AL FUOCO                                    OMBRE

   di Rubrus                                        di Diego Zucca


La motivazione del giudice



"Attorno al fuoco" di Rubrus: L'autore sfrutta bene i pochi caratteri a disposizione per creare una ben dosata atmosfera di tensione. I dialoghi ci fanno entrare facilmente in sintonia coi personaggi, ci fanno respirare la tensione che provano. 
Le descrizioni, poche e ben dosate, tratteggiano il buio che li circonda.
Buona la scelta di narrare in prima persona, puntando l'attenzione su un altro personaggio, tanto bravo a raccontare storie da farle sembrare vere. Il finale era quasi scontato, ma va bene lo stesso, perché a un certo punto credi che possa non accadere nulla, che sia tutto un bel gioco di tensione linguistica, e invece...

"Ombre" di Diego Zucca: Quando ho letto per la prima volta questo racconto ho pensato due cose: molto bello e... non credo sia un horror. In effetti abbiamo l'idea che l'horror debba spaventarci, farci sentire angosciati, possibilmente con elementi non reali. 
Be', in questo racconto l'elemento non reale c'è (le "ombre") ma il vero (H)orror(e) è la disgrazia che c'è di fondo, le vite spezzate e trasformate in ombre. 
Lo premio quindi al primo posto insieme al racconto di Rubrus, perché molto spesso l'orrore non è nel soprannaturale che ci bracca, ma nella normale tragedia che ci circonda.



MENZIONE SPECIALE

I dolci di marzapane

di Gaia Mariani




In poche righe riusciamo a entrare nelle paure di una tradizione popolare che si trascina dai tempi antichi. Riusciamo a vedere il piccolo paese, il silenzio della notte, l'attesa. E forse, a un certo punto, ci sembra quasi di sentire arrivare gli spiriti del passato...

 


MENZIONE SPECIALE 
Tre

di Maria Rosaria Del Ciello


L'amore di essere madre. Il terrore di non accettare tuo figlio. E l'angoscia di sapere che la scelta fatta è quella sbagliata, è la scelta della paura, non quella dell'amore. 
Quando prendi la via sbagliata, dormire e vivere sereni diventa impossibile.

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 Ecco i racconti premiati

racconto vincitore




«Attenta agli striscianti notturni».
Udimmo i passi di Barbara frusciare tra l’erba, poi fermarsi.
«Che roba è?» chiese dal buio.
Roberto esitò, agitando con uno stecco la brace del fuoco morente.
«Vanno in giro di notte. Si orientano col calore del corpo. Non li senti finché non ti mordono».
Ci sembrò che sogghignasse, ma poteva essere un gioco di luci e ombre creato dal riverbero delle fiamme.
Seguì un lungo silenzio, poi udimmo i passi di Barbara avvicinarsi.
Massimo si spostò e lei si sedette accanto a Roberto lanciandogli uno sguardo astioso. Gli occhiali di lui le restituirono uno scintillio indifferente.
«Dove eravamo rimasti?» chiese Roberto.
Eravamo seduti tutti e sette intorno al fuoco e ci raccontavamo storie del terrore. O meglio, Roberto raccontava e noi ascoltavamo.
«Il tipo tira su la tipa che fa l’autostop. Sta piovendo» disse Luigi.
«Ah, già» confermò Roberto bevendo un sorso d’acqua. Non che ne avesse bisogno: gli serviva per creare la suspence. Era un trucco del cavolo, ma funzionava, cribbio se funzionava.
Quella storia, ad esempio, quella dell’autostoppista; l’avevamo sentita tutti, almeno una dozzina di volte, ma non così, non raccontata da Roberto. Non era la stessa cosa.
Non chiedetemi perché. Non dipendeva da quei trucchetti da quattro soldi come tenere le parti più spaventose alla fine, quando la luce del fuoco scemava e la notte era uno straccio gelido che si appoggiava sulla schiena.
Era talento, credo. Una specie di potere.
«Be’» riprese Roberto «il tizio tira su la ragazza, e l’aria gelida entra nella macchina. I vetri si appannano e il fiato si condensa La ragazza indossa un vestito leggero. Il ragazzo allunga la mano verso di lei – ha delle belle gambe, sapete? – ma subito la ritira perché è come se l’avesse messa nel congelatore. E forse non è solo aria fredda quella che è entrata nell’auto…».
«Che cavolo sono questi striscianti notturni?» chiese Barbara.
Roberto si girò verso di lei con un mezzo sorriso. «Stavo raccontando una storia».
«Che cavolo sono» insisté lei.
«Già» intervenne Daniele «che cavolo sono?». Roberto gettò altra legna tra le fiamme.
«Non lo so» rispose abbassando la voce. Ho sentito qualche vecchia parlarne. Diceva che quando il primo ti morde quasi non lo senti. Ma poi arrivano gli altri».
Attese che il fuoco brillasse, poi riprese: «Ti riempiono di veleno e il veleno prende il controllo del tuo corpo. Ti… possiede… come in quel film… “L’Esorcista”…». Tacque.
Si guardò in giro, come per cercare altra legna, ma non ce n’era più e tutti lo sapevamo. Anche lui.
Si strinse nelle spalle. «Solo che è diverso. Niente vomito di zuppa di piselli. Ce se ne accorge dalla voce… ma è già troppo tardi».
Tacque. «C’è un rimedio però» concluse.
Una folata abbassò le fiamme e corse per i campi. Alcuni steli si piegarono fino a sfiorarci la schiena.
«Quale?» chiese Barbara.
Roberto si voltò verso di lei. Stavolta sorrideva davvero.
«La legna è finita. Ce n’è solo un mucchietto nell’orto. Ti spiace andare a prenderlo?».
A volte Roberto sapeva essere un gran bastardo.
«Be’» aggiunse «qualcuno dovrebbe fare il cavaliere. Dopotutto è una ragazza».
Barbara si alzò con un gesto stizzito, mentre ognuno di noi chinava la testa. Se ne stette lì, in piedi, un bel pezzo, mentre noi avvertivamo il suo sguardo, poi si allontanò nelle tenebre. I suoi passi si persero a poco a poco.
«Penso che dovremmo aspettare un po’, non credete?» chiese Roberto.
Nessuno rispose. Lui estrasse un chewingum e lo masticò diffondendo un lieve aroma di menta.
Per raggiungere l’orto si doveva girare dietro la casa e percorrere un viottolo tra due siepi alte e fitte come muraglie. Ci volevano cinque minuti buoni. Una parte dei quali nell’oscurità più completa.  
Abitavo in paese da quando ero nato e non avevo mai sentito parlare degli striscianti notturni, né avevo sentito qualcuno nominarli.
Certo non poteva averlo udito Roberto, che, in paese, passava solo le vacanze estive.
Insomma, sapevamo tutti che gli striscianti notturni se li era inventati lui quella sera stessa e che Barbara, anche se aveva detto ai suoi che sarebbe rimasta con noi, aveva altri progetti. Più precisamente, raggiungere Marco che l’aspettava in piazza.
Non ci sfuggiva neppure che, a Roberto, tutto ciò non andava a genio e che la strada per raggiungere il paese era lunga. Ti toccava percorrere un tratto dell’alzaia, dove grossi tigli oscuravano i lampioni con chiome dense e spesse che nessuno potava a dovere. Là sotto, era buio anche di giorno.
E nessuno di noi si sarebbe avventurato nell’oscurità.
Non senza conoscere il rimedio contro gli striscianti notturni. 
Era una questione di potere, credo.
Qualcosa aveva il potere di costringere Barbara a farsi un chilometro a piedi per raggiungere Marco rischiando le sberle di suo padre e qualcos’altro aveva il potere di inchiodarla lì – lei e tutti noi – perché non era saggio avventurarsi nel buio senza le giuste precauzioni.
Adesso non venite a dirmi che erano solo invenzioni di un ragazzo dalla fantasia sfrenata. Sono fesserie e lo sapete anche voi, così come l’hanno sempre saputo tutti coloro che, nel corso di centinaia di anni (o migliaia, o milioni), si sono radunati intorno al fuoco.
Forse gli striscianti notturni esistevano solo nelle nostre teste, forse erano sempre esistiti e nessuno se n’era mai accorto, forse non erano esistiti fino a quella sera. Questi sono dettagli.
Quello che contava era il potere e anche le parole hanno un potere. Parole per fare uscire dalle tenebre gli striscianti notturni e parole per ricacciarceli dentro.
O forse bastava un po’ di luce. Barbara avrebbe portato un po’ di legna, l’avrebbe buttata sul fuoco e le fiamme avrebbero cacciato il buio. Allora avremmo riso e ci saremmo sentiti stupidi. Ma sarebbe stato bello sentirsi stupidi.
Udimmo i passi di Barbara tra l’erba. Si avvicinavano lentamente.
Raggiunse l’anello formato dalle nostre schiene e si fermò.
«Ho portato la legna» disse.
La sua voce era roca, piena di terra.

racconto vincitore



Mi chiamo Vladimir. Mia mamma mi ha messo questo nome nella speranza che un giorno anche io possa guidare questo Paese. Ma per ora ho solo undici anni e nessuno mi chiama Vladimir, tutti mi chiamano Vova. Vivo in questa cittadina di campagna, dove ogni giorno è uguale all’altro.
Tra tutti i bambini ce n’è uno che invidio molto. Si chiama Vania. Lui racconta sempre un sacco di storie. Proprio ieri raccontava che è stato di nuovo al vecchio aeroporto militare abbandonato. Bisogna attraversare il bosco di betulle, poi passare da due ruscelli e poi, nascosto dalla vegetazione, potevi vederlo. Io non ci sono mai andato perché la mamma non vuole. E perché ho paura. Là ci sono le ombre.
Ma torniamo a Vania. Ieri è arrivato mentre io stavo giocando con Ksiusha, Masha e Vitalik. Era eccitato. Ci ha raccontato che era stato di nuovo al vecchio aeroporto. Subito aveva catturato l’attenzione delle due ragazze. Ma anche la mia. Abbiamo subito smesso di giocare e ci siamo messi ad ascoltarlo.
-Ci sono stato di nuovo!- il sorriso sulle labbra.
-Davvero? E anche stavolta le hai viste?- Ksiusha era la più interessata. E anche la più carina.
Non c’era nemmeno da chiedersi che cosa avesse visto. Tutti sapevamo che parlava delle ombre.
-Certo che le ho viste. Però stavolta credo di sapere chi siano.- poi è rimasto in silenzio, per accrescere la nostra curiosità.
-Chi?- ha chiesto Masha, impaziente.
-Credo che siano fantasmi di vecchi agenti del KGB.
-E come fai a saperlo?- Vitalik era scettico.
-Oggi ero nascosto tra due vecchi camion, quando ho visto passare le ombre…
-Ma non avevi paura?- Ksiusha era affascinata.
Vania tirò su col naso:
-Non sono mica un moccioso! Ero lì, quando le ho viste passare. Passavano veloci, nessuno mi vedeva. Poi ad un certo punto un’ombra simile ad un cane mi deve aver scorto. Ha iniziato ad abbaiare contro di me. Io ho cercato di fargli una carezza, ma era impalpabile. Poi sono andato via.
Poi è andato via lasciandoci lì a parlare di lui. La volta precedente era sicuro che le ombre fossero persone morte in un incidente aereo anni prima. Ma io non ricordo nessun incidente aereo dalle nostre parti. Non so nemmeno se esistano davvero le ombre o se siano frutto della fantasia di Vania. Secondo lui se un’ombra ci prende, può mangiarci. Perché hanno i denti aguzzi. Molti denti aguzzi. E hanno sempre tanta fame.

Oggi c’è il sole, è una bella giornata. Come ieri. Come l’altro ieri. Vania mi si avvicina:
-Oggi tu verrai con me.
Dentro di me sento solo orrore. Però non trovo il coraggio di rifiutare. Armati di acqua e panini con il salame, ci incamminiamo per il bosco di betulle. Il primo ruscello. Proprio come dicevano. Poi ancora un breve tratto di bosco. Vedo un gatto bianco che mi guarda. Gli manca un occhio. Mi giro per farlo vedere a Vania, ma il gatto è sparito. Poi il secondo ruscello, la vegetazione diventa sempre più fitta, c’è molta ortica. Ora capisco perché Vania si è messo i pantaloni lunghi. Sto zitto e soffro in silenzio. Le gambe bruciano. Poi all’improvviso eccolo lì. Il vecchio aeroporto militare abbandonato e pieno di leggende. C’è una pista lunga per il decollo, un vecchio nastro trasportatore tutto arrugginito, dei banchi di legno marcio. Una carrozzella per disabile. Quella mi sembra fuori luogo, e un brivido mi sale lungo la schiena. Vania ride e scherza. Poi inizia a giocare a nascondino e questo non mi piace.
Improvvisamente sento ridere. Ma non è Vania. E’ una risata di bambina. Mi giro ma non c’è nessuno. Penso che anche Vania l’abbia sentita, perché al grido di “Le ombre!” se la dà a gambe levate, lasciandomi lì da solo. Ma io non scappo.
Cerco di vedere meglio. Non si vede nulla. All’improvviso mi sento toccare i capelli. Un tocco gelido. Mi volto sicuro di non vedere nulla.
Ma c’è un’ombra.
Poco più bassa di me. E’ sfuggevole. Il cuore mi si ferma in gola. Sento come se avessi un buco che dallo stomaco va diretto all’intestino.
Dice qualcosa, ma non riesco a capire. Sono terrorizzato. Poi l’ombra se ne va.
Poi, come uno schiaffo inaspettato, spuntano tantissime ombre. Tutte insieme. Vorrei scappare, ma le gambe sono diventate due lapidi. Le ombre passano, veloci e sfuggenti. Chiudo gli occhi, sperando che spariscano. Li riapro e davanti a me c’è una bambina. Riesco a vederla abbastanza bene. E’ vestita in modo un po’ stravagante.
-Chi sei?- le domando, il cuore impazzito.
-Chi sei tu?- Mi risponde lei. La voce è molto lontana.
-Io mi chiamo Vladimir.- dico con solennità, scrollandomi di dosso quell’infantile Vova.
-Come il Presidente.- sorride lei.
Io non capisco a cosa si riferisca. Il nostro Dirigente di partito si chiama Michail. Poi mi concentro ancora di più.
Vedo queste ombre, in molti addirittura hanno i jeans. Sento i loro discorsi. Una donna tiene un ombrello alzato e spiega qualcosa, mentre tutti gli altri la ascoltano:
-Questo era l’aeroporto militare segreto di Pripyat, situato a soli tre chilometri dalla centrale nucleare di Chernobyl. Il 26 aprile 1986 ci fu l’esplosione del reattore numero quattro e la gente fu sfollata con la promessa di poter tornare entro tre settimane. La leggenda narra che tutte le persone morte nel giro di pochi mesi a causa delle radiazioni, mantenendo fede alla promessa fattagli, siano tornate e vivano ancora in paese. Voi credete ai fantasmi? Ora proseguiamo il nostro macabro tour verso il vecchio luna park…
Perché parla al passato della data di oggi? Cosa deve succedere? Io le chiedo di spiegarmi meglio, ma lei non mi risponde. Mi guarda come se l’ombra fossi io. Sento l’angoscia crescere dentro di me. Perché riescono a sentirmi solo i bambini e a vedermi soltanto i cani?
Forse qualcosa ho intuito.
Mi chiamavo Vladimir. Mia madre sperava che potessi guidare il paese, proprio come Vladimir Lenin. Sono nato undici anni fa, cioè, il 7 aprile del 1975. Ma qui il tempo si è fermato, ogni giorno è uguale a quello seguente. E’ in eterno il 26 aprile 1986.
Vania, fatti da parte, oggi ho io qualcosa da raccontare. Le ombre siamo noi.

menzione speciale

 In cui antiche Storie e antiche Voci in antiche Terre

raccontano e ammoniscono


Ogni anno, quando arriva novembre, c'è grande apprensione dalle mie parti. Consideratela pure una tradizione, un momento di suggestione collettiva, ma tra le verdi colline e le profonde radici di un popolo che vive solo della propria terra, c’è ancora chi sussurra che sia tutto vero. E ogni vigilia di Ognissanti un vago senso di attesa si spande già nell’ora gelida del primo mattino.
Le case di pietra, come la nera pupilla in un’iride colorata, riposano da secoli tra le nebbiose palpebre di colline silenziose, percosse dai sussurri del vento quando scende la sera. Tutti i giorni sono uguali, le notti senza luna, illuminate solo dai guizzi di antiche lampade a olio appese sopra ogni porta.
Dalle mie parti siamo un grappolo di anime, qualche centinaia di acini in una vigna abbandonata, tra le pareti verdeggianti che ci circondano, e nascondono.
Oltre le casupole di pietra e la chiesa, le lapidi del cimitero si inerpicano sui fianchi della collina. E ci sono molte tombe, almeno rispetto ai pochi abitanti. Dalle mie parti, quei defunti non fanno paura, custoditi dalla terra fredda sotto la collina.

Dalle mie parti, i vecchi raccontano che, nella notte di Ognissanti, gli abitanti del camposanto ritornino a far visita ai loro parenti ancora in vita. Essi gli lasciano le proprie case, il proprio cibo, i propri letti, ma non si devono mai far trovare di persona, altrimenti le anime gli chiederebbero di seguirle, di tornare con loro nel luogo del riposo eterno
Almeno fino alla vigilia di Ognissanti, tutti i giorni sono uguali, ma quella notte un lungo brivido discende la schiena delle colline, facendo intirrizzire l’erba e arrivando fino al paese dove, sul davanzale di ogni casa, le donne hanno lasciato dolci di marzapane. Quella notte le case sono deserte, sono andati tutti a dormire, o a pregare, altrove, ma gli usci sono stati lasciati aperti e, oltre ai dolci sul davanzale, i tavoli delle cucine sono imbandite come per un banchetto. Le lampade a olio appese sopra le porte rimangono accese quasi per indicare la strada a misteriosi viandanti. Nulla di strano, o almeno di visibile, sembra succedere; ma la mattina seguente si trovano solo gli avanzi dei cibi e i letti sono sfasciati come se fossero stati il luogo di un riposo inquieto. Nulla viene portato via dalle case, tranne i dolci di marzapane.

Da secoli ormai la tradizione di Ognissanti si ripete. E’ probabile che sia solo leggenda, che qualcun’altro rubi il cibo sui davanzali e sfasci i letti. Ma nessuno sa spiegare come e perchè altri possano trovarsi dalle mie parti, in mezzo alle nebbiose colline che nascondono la luna.
Io posso dirvelo. Mi ribellai al volere della mia famiglia, mi ribellai alla vecchia tradizione e alle mie origini. Ero tornato a casa dopo essermi laureato in una città lontana. Tornai per un breve saluto alla mia famiglia, prima di partire per sempre; e non per caso, adesso credo, capitai nel periodo di Ognissanti. Trovai il mio paese come l’avevo lasciato. Al primo mattino il gelo faceva ghiacciare i piccoli corsi d’acqua, le foglie in plastiche pose accartocciate nella brina e i rami, corrosi dal vento, si levavano in braccia spettrali attraverso la nebbia. Mi accolse un rintocco di campana, un suono ferroso e freddo che non copriva il sibilo del vento. Il camposanto si stendeva, placido e addormentato, tra il vapore che saliva dalla terra fredda. Le cime delle lapidi levigate dal tempo, visibili nel loro pallore sullo sfondo verde del fianco della collina.

Anche se ero cresciuto lì e conoscevo la tradizione, quell'anno mi rifiutai di seguire tutti gli altri fuori dalle case. Volevo dimostrare di non essere più un misero acino d’uva, ma un tralcio pronto a recidere i propri legami con la terra e a far scorrere buon vino nella mia gola assetata di razionalità. Provarono a convincermi a non rimanere, ma quando ormai il marzapane era sul davanzale e i cibi sulla tavola, io ero ancora lì e il buio già scendeva implacabile e denso tra le colline. Qualunque parola trovassi adesso per descrivere ciò che sentii e vidi sarebbe inadeguata: non poteva essere vero, non avrebbe potuto esserlo, ma lo era. Passi e voci, in un coro di gole morte e senz'aria, intonavano, in processione, carmi e rauche preghiere. Oltre la finestra non vidi nulla, da nessun luogo sembravano provenire le voci ed i passi, eppure da tutti i luoghi li percepivo intorno a me. Circondato e sordo ad ogni cosa se non le orrende parole di quel carme stonato, vidi sparire il cibo sul davanzale, divorato da fameliche ombre senza bocca. Nella mia testa mi chiesero altro cibo per i loro corpi magri. Ne avevano bisogno. Avrebbero divorato anche me. Mani invisibili e voci di gole nascoste mi fissavano con occhi vuoti e ciechi, ma nella mia mente nulla è rimasto della sarabanda infernale se non la carezzevole proposta di seguirli lì dove i vivi non possono andare. Sentivo che non c’era possibilità di scelta per me, non nell’invisibile corteo di spiriti vagabondi. Una notte, una notte all’anno tornano alle loro case, dal ricordo di una vita perduta. Seguii le voci, danzai con loro nell’oscurità. Mi lasciai avvolgere dagli spiriti di ossa, ossa dense come il buio, e voci palpabili nella mia mente ormai delirante. Di fronte ai morti affamati, tornati o venuti a prendere coloro che si attardavano nella loro indecisione, non lasciando ai morti ciò che è dovuto ai morti.

La mattina dopo non mi trovarono. Nessuno mi vide più, solo il mio letto era intatto, un solo dolce di marzapane era rimasto. Mia madre accese una candela per me, e, ogni giorno, mi porta fiori freschi nel camposanto in cui ora riposo, sotto una tomba vuota. Dormo, aspettando la prossima notte, in cui anche io tornerò nella mia casa, insieme ai miei compagni, per assaggiare i dolci di marzapane che le donne, come ogni anno, continuano a lasciare sui davanzale. Tornerò per mangiare, ma non riuscirò a saziarmi di quella vita perduta di cui ci toccano solo briciole insapori.

menzione speciale

 

18 maggio 1889

Olga giaceva nel letto esausta ma felice, stesa tra lenzuola di lino e di pizzo, impreziosite da ricami che dita esperte avevano realizzato per lei. Lenzuola ora intrise del sudore e degli umori che il parto aveva provocato.
In un angolo della stanza una donna, non più giovane, teneva in braccio un fagotto piangente e aveva sul volto un pallore quasi più intenso di quello della puerpera.
- È un maschio? – chiese la giovane Olga con un filo di voce.
- È un maschio… - rispose l’altra, e sul viso si intravedeva l’ombra del terrore.
Olga sorrise, si fece il segno della croce e baciò il ciondolo d’oro che portava al petto.
- Mettetemelo al seno, vi prego.
La donna non più giovane ebbe un’esitazione.
- Forse è meglio aspettare il medico.
Il medico sarebbe giunto a momenti. Era stato bloccato da una chiamata urgente, dell’ultimo minuto.
- Voglio mio figlio! – insistette Olga.
La donna le avvicinò il fagotto e glielo porse, facendo attenzione che rimanesse ben avvolto nella copertina di lana.
Olga strinse il bimbo al petto, scoprì un seno e fece attaccare il pargolo.
E mentre quello suggeva, con avidità, il latte materno, Olga scostò la copertina di lana per toccare e carezzare i piccoli piedi del bimbo.
Urlò Olga.
Il bimbo si staccò dal seno e iniziò un pianto disperato.
Olga svenne.


18 maggio 1909

Tlac… tlac… tlac…
Tlac… tlac… tlac…

La donna scrutò il buio alle sue spalle ma non riuscì a scorgere nulla. Affrettò il passo e mentre ansimava l’oscurità pareva inseguirla per le strade di quella sera londinese e nebbiosa.
Accelerò l’andatura, cadenzata sul battito del suo cuore sempre più veloce. Nelle orecchie quel rumore continuava a inseguirla e sembrava farsi sempre più vicino.
Raggiunse il portone di casa e con un sospiro di sollievo lo aprì, lo richiuse rapida dietro di sé e abbandonò il suo corpo contro il legno duro.
Un uomo gli si parò davanti.
- Cosa è stato, Olga? Cos’è questo pallore sul tuo volto?
Olga era in piedi, occhi chiusi e membra tremanti.
- È venuto a prendermi, lo so, ne sono sicura.
- Ma cosa vai farneticando?
- Mi ha seguito fino a casa, era qui fuori, per le vie di Londra. Ho riconosciuto i suoi passi. Non avrò scampo.
L’uomo la guardò in silenzio per alcuni istanti.

Forse questa volta Olga aveva ragione. Aveva sentito anche lui circolare strane voci su un “mostro” che spaventava i passanti per le vie di Londra.
- Come fai a essere certa che fosse lui? – chiese, quasi sperando che la risposta fosse diversa da ciò che temeva.
- Quel rumore, Nicola, è inconfondibile. Solo i suoi passi possono generare quel suono. Un suono demoniaco. E il diavolo, questa volta, sta per venire a prendermi.
Un pensiero veloce attraversò la mente di Nicola. Tornò al passato, molti anni prima. Non voleva crederci. Non poteva aver ragione Olga.
- È tornato per farmela pagare, Nicola.
Olga era in preda alla disperazione e lui non sapeva cosa fare per consolarla, per acquietare la sua angoscia.
Si udì fuori della porta un rumore farsi sempre più vicino.
- Non dovevamo abbandonarlo. Non ne avevamo il diritto, dopo tutto quello che avevamo passato per averlo – e la voce di Olga fu strozzata da un singhiozzo.

Tlac… tlac… tlac…

Rumori di passi che si avvicinavano alla casa. Nicola avvicinò l’orecchio al portone e in quell’istante il campanello suonò.
- Non aprire, Nicola. Ti prego. Ho paura…
Il campanello squillò, e squillò ancora per tre volte.
Nicola allora si spostò alla finestra, scostò leggermente le tendine.
Davanti l’uscio di casa, illuminato dalla fioca luce del lampione d’ingresso, stava immobile una curiosa figura. Un uomo, cappello calato sugli occhi, una corta mantella sdrucita, rimaneva in piedi, austero e un po’ sbilenco sulle sue tre gambe.
Una gamba di troppo che l’aveva fatto ripudiare dalla madre e dal padre.
Nicola ricordò tutto, dall’inizio alla fine.
Tre gambe che, secondo la voce che si era sparsa in città, ne avevano decretato l’essere più abbietto e mostruoso che popolava le oscure notti londinesi.
Una gamba di troppo che né lui né Olga erano riusciti ad accettare. E Nicola era certo che quell’amore perduto, il loro, sarebbe stato reclamato in altro modo. Sarebbe stato tramutato in terrore. Perché il loro terrore era forse la più amara delle vendette.
Questo pensò Nicola, ma non ebbe il coraggio di dirlo a Olga che si era accasciata su una poltrona e pareva quasi aver perso i sensi.

Tlac… tlac… tlac…

I miei passi risuoneranno per sempre nella tua testa, madre.
Non ti libererai mai di me.
L’uomo sbilenco parlava da solo mentre si allontanava dalla casa.
Nel buio la sua figura deforme era appena distinguibile. E i pipistrelli e gli uccelli della notte gli volteggiavano intorno, unica compagnia delle sue passeggiate solitarie.
Ma non sarebbe stato per molto. Avrebbe dedicato tutto il suo tempo per riproporre ai loro occhi l’orrore che un tempo avevano rifiutato. Sarebbe stato per sempre compagno dei loro sogni, incubi, pensieri…

Tlac… tlac… tlac…

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