Eccoci ad annunciare il vincitore della gara 6 del contest letterario Arcobaleno d'Inchiostro, sul genere HORROR.
Ben 28 racconti (tantissimi!) sono arrivati in redazione nonostante il periodo di vacanze estivo e di questo vi ringraziamo: vuol dire che il contest di Magla vi intriga e vi ispira! :-D
...Il giudice di questa sfida, Andrea Franco ci ha fatto una prima sorpresa inviandoci un suo racconto a tema che potete leggere qui o direttamente nella home page di questo blog!
Ha poi valutato i racconti e ha deciso i nomi dei vincitori. Parliamo al plurale perché c'è una nuova sorpresa! Quindi lasciamo a lui la parola...
RACCONTI VINCITORI A EX-AEQUO
INTORNO AL FUOCO OMBRE
di Rubrus di Diego Zucca
La motivazione del giudice
"Attorno al fuoco" di Rubrus: L'autore sfrutta bene i pochi caratteri a disposizione per creare una ben dosata atmosfera di tensione. I dialoghi ci fanno entrare facilmente in sintonia coi personaggi, ci fanno respirare la tensione che provano.
Le descrizioni, poche e ben dosate, tratteggiano il buio che li circonda.
Buona la scelta di narrare in prima persona, puntando l'attenzione su un altro personaggio, tanto bravo a raccontare storie da farle sembrare vere. Il finale era quasi scontato, ma va bene lo stesso, perché a un certo punto credi che possa non accadere nulla, che sia tutto un bel gioco di tensione linguistica, e invece...
"Ombre" di Diego Zucca: Quando ho letto per la prima volta questo racconto ho pensato due cose: molto bello e... non credo sia un horror. In effetti abbiamo l'idea che l'horror debba spaventarci, farci sentire angosciati, possibilmente con elementi non reali.
Be', in questo racconto l'elemento non reale c'è (le "ombre") ma il vero (H)orror(e) è la disgrazia che c'è di fondo, le vite spezzate e trasformate in ombre.
Lo premio quindi al primo posto insieme al racconto di Rubrus, perché molto spesso l'orrore non è nel soprannaturale che ci bracca, ma nella normale tragedia che ci circonda.
MENZIONE SPECIALE
I dolci di marzapane
di Gaia Mariani
In poche righe riusciamo a entrare nelle paure di una tradizione popolare che si trascina dai tempi antichi. Riusciamo a vedere il piccolo paese, il silenzio della notte, l'attesa. E forse, a un certo punto, ci sembra quasi di sentire arrivare gli spiriti del passato...
MENZIONE SPECIALE
di Maria Rosaria Del Ciello
L'amore di essere madre. Il terrore di non accettare tuo figlio. E
l'angoscia di sapere che la scelta fatta è quella sbagliata, è la scelta
della paura, non quella dell'amore.
Quando prendi la via sbagliata,
dormire e vivere sereni diventa impossibile.
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Ecco i racconti premiati
racconto vincitore
«Attenta
agli striscianti notturni».
Udimmo
i passi di Barbara frusciare tra l’erba, poi fermarsi.
«Che
roba è?» chiese dal buio.
Roberto
esitò, agitando con uno stecco la brace del fuoco morente.
«Vanno
in giro di notte. Si orientano col calore del corpo. Non li senti
finché non ti mordono».
Ci
sembrò che sogghignasse, ma poteva essere un gioco di luci e ombre
creato dal riverbero delle fiamme.
Seguì
un lungo silenzio, poi udimmo i passi di Barbara avvicinarsi.
Massimo
si spostò e lei si sedette accanto a Roberto lanciandogli uno
sguardo astioso. Gli occhiali di lui le restituirono uno scintillio
indifferente.
«Dove
eravamo rimasti?» chiese Roberto.
Eravamo
seduti tutti e sette intorno al fuoco e ci raccontavamo storie del
terrore. O meglio, Roberto raccontava e noi ascoltavamo.
«Il
tipo tira su la tipa che fa l’autostop. Sta piovendo» disse Luigi.
«Ah,
già» confermò Roberto bevendo un sorso d’acqua. Non che ne
avesse bisogno: gli serviva per creare la suspence. Era un trucco del
cavolo, ma funzionava, cribbio se funzionava.
Quella
storia, ad esempio, quella dell’autostoppista; l’avevamo sentita
tutti, almeno una dozzina di volte, ma non così, non raccontata da
Roberto. Non era la stessa cosa.
Non
chiedetemi perché. Non dipendeva da quei trucchetti da quattro soldi
come tenere le parti più spaventose alla fine, quando la luce del
fuoco scemava e la notte era uno straccio gelido che si appoggiava
sulla schiena.
Era
talento, credo. Una specie di potere.
«Be’»
riprese Roberto «il tizio tira su la ragazza, e l’aria gelida
entra nella macchina. I vetri si appannano e il fiato si condensa La
ragazza indossa un vestito leggero. Il ragazzo allunga la mano verso
di lei – ha delle belle gambe, sapete? – ma subito la ritira
perché è come se l’avesse messa nel congelatore. E forse non è
solo aria fredda quella che è entrata nell’auto…».
«Che
cavolo sono questi striscianti notturni?» chiese Barbara.
Roberto
si girò verso di lei con un mezzo sorriso. «Stavo raccontando una
storia».
«Che
cavolo sono» insisté lei.
«Già»
intervenne Daniele «che cavolo sono?». Roberto gettò altra legna
tra le fiamme.
«Non
lo so» rispose abbassando la voce. Ho sentito qualche vecchia
parlarne. Diceva che quando il primo ti morde quasi non lo senti. Ma
poi arrivano gli altri».
Attese
che il fuoco brillasse, poi riprese: «Ti riempiono di veleno e il
veleno prende il controllo del tuo corpo. Ti… possiede… come in
quel film… “L’Esorcista”…». Tacque.
Si
guardò in giro, come per cercare altra legna, ma non ce n’era più
e tutti lo sapevamo. Anche lui.
Si
strinse nelle spalle. «Solo che è diverso. Niente vomito di zuppa
di piselli. Ce se ne accorge dalla voce… ma è già troppo tardi».
Tacque.
«C’è un rimedio però» concluse.
Una
folata abbassò le fiamme e corse per i campi. Alcuni steli si
piegarono fino a sfiorarci la schiena.
«Quale?»
chiese Barbara.
Roberto
si voltò verso di lei. Stavolta sorrideva davvero.
«La
legna è finita. Ce n’è solo un mucchietto nell’orto. Ti spiace
andare a prenderlo?».
A
volte Roberto sapeva essere un gran bastardo.
«Be’»
aggiunse «qualcuno dovrebbe fare il cavaliere. Dopotutto è una
ragazza».
Barbara
si alzò con un gesto stizzito, mentre ognuno di noi chinava la
testa. Se ne stette lì, in piedi, un bel pezzo, mentre noi
avvertivamo il suo sguardo, poi si allontanò nelle tenebre. I suoi
passi si persero a poco a poco.
«Penso
che dovremmo aspettare un po’, non credete?» chiese Roberto.
Nessuno
rispose. Lui estrasse un chewingum e lo masticò diffondendo un lieve
aroma di menta.
Per
raggiungere l’orto si doveva girare dietro la casa e percorrere un
viottolo tra due siepi alte e fitte come muraglie. Ci volevano cinque
minuti buoni. Una parte dei quali nell’oscurità più completa.
Abitavo
in paese da quando ero nato e non avevo mai sentito parlare degli
striscianti notturni, né avevo sentito qualcuno nominarli.
Certo
non poteva averlo udito Roberto, che, in paese, passava solo le
vacanze estive.
Insomma,
sapevamo tutti che gli striscianti notturni se li era inventati lui
quella sera stessa e che Barbara, anche se aveva detto ai suoi che
sarebbe rimasta con noi, aveva altri progetti. Più precisamente,
raggiungere Marco che l’aspettava in piazza.
Non
ci sfuggiva neppure che, a Roberto, tutto ciò non andava a genio e
che la strada per raggiungere il paese era lunga. Ti toccava
percorrere un tratto dell’alzaia, dove grossi tigli oscuravano i
lampioni con chiome dense e spesse che nessuno potava a dovere. Là
sotto, era buio anche di giorno.
E
nessuno di noi si sarebbe avventurato nell’oscurità.
Non
senza conoscere il rimedio contro gli striscianti notturni.
Era
una questione di potere, credo.
Qualcosa
aveva il potere di costringere Barbara a farsi un chilometro a piedi
per raggiungere Marco rischiando le sberle di suo padre e
qualcos’altro aveva il potere di inchiodarla lì – lei e tutti
noi – perché non era saggio avventurarsi nel buio senza le giuste
precauzioni.
Adesso
non venite a dirmi che erano solo invenzioni di un ragazzo dalla
fantasia sfrenata. Sono fesserie e lo sapete anche voi, così come
l’hanno sempre saputo tutti coloro che, nel corso di centinaia di
anni (o migliaia, o milioni), si sono radunati intorno al fuoco.
Forse
gli striscianti notturni esistevano solo nelle nostre teste, forse
erano sempre esistiti e nessuno se n’era mai accorto, forse non
erano esistiti fino a quella sera. Questi sono dettagli.
Quello
che contava era il potere e anche le parole hanno un potere. Parole
per fare uscire dalle tenebre gli striscianti notturni e parole per
ricacciarceli dentro.
O
forse bastava un po’ di luce. Barbara avrebbe portato un po’ di
legna, l’avrebbe buttata sul fuoco e le fiamme avrebbero cacciato
il buio. Allora avremmo riso e ci saremmo sentiti stupidi. Ma sarebbe
stato bello sentirsi stupidi.
Udimmo
i passi di Barbara tra l’erba. Si avvicinavano lentamente.
Raggiunse
l’anello formato dalle nostre schiene e si fermò.
«Ho
portato la legna» disse.
La
sua voce era roca, piena di terra.
racconto vincitore
Mi
chiamo Vladimir. Mia mamma mi ha messo questo nome nella speranza che
un giorno anche io possa guidare questo Paese. Ma per ora ho solo
undici anni e nessuno mi chiama Vladimir, tutti mi chiamano Vova.
Vivo in questa cittadina di campagna, dove ogni giorno è uguale
all’altro.
Tra
tutti i bambini ce n’è uno che invidio molto. Si chiama Vania. Lui
racconta sempre un sacco di storie. Proprio ieri raccontava che è
stato di nuovo al vecchio aeroporto militare abbandonato. Bisogna
attraversare il bosco di betulle, poi passare da due ruscelli e poi,
nascosto dalla vegetazione, potevi vederlo. Io non ci sono mai andato
perché la mamma non vuole. E perché ho paura. Là ci sono le ombre.
Ma
torniamo a Vania. Ieri è arrivato mentre io stavo giocando con
Ksiusha, Masha e Vitalik. Era eccitato. Ci ha raccontato che era
stato di nuovo al vecchio aeroporto. Subito aveva catturato
l’attenzione delle due ragazze. Ma anche la mia. Abbiamo subito
smesso di giocare e ci siamo messi ad ascoltarlo.
-Ci
sono stato di nuovo!- il sorriso sulle labbra.
-Davvero?
E anche stavolta le hai viste?- Ksiusha era la più interessata. E
anche la più carina.
Non
c’era nemmeno da chiedersi che cosa avesse visto. Tutti sapevamo
che parlava delle ombre.
-Certo
che le ho viste. Però stavolta credo di sapere chi siano.- poi è
rimasto in silenzio, per accrescere la nostra curiosità.
-Chi?-
ha chiesto Masha, impaziente.
-Credo
che siano fantasmi di vecchi agenti del KGB.
-E
come fai a saperlo?- Vitalik era scettico.
-Oggi
ero nascosto tra due vecchi camion, quando ho visto passare le ombre…
-Ma
non avevi paura?- Ksiusha era affascinata.
Vania
tirò su col naso:
-Non
sono mica un moccioso! Ero lì, quando le ho viste passare. Passavano
veloci, nessuno mi vedeva. Poi ad un certo punto un’ombra simile ad
un cane mi deve aver scorto. Ha iniziato ad abbaiare contro di me. Io
ho cercato di fargli una carezza, ma era impalpabile. Poi sono andato
via.
Poi
è andato via lasciandoci lì a parlare di lui. La volta precedente
era sicuro che le ombre fossero persone morte in un incidente aereo
anni prima. Ma io non ricordo nessun incidente aereo dalle nostre
parti. Non so nemmeno se esistano davvero le ombre o se siano frutto
della fantasia di Vania. Secondo lui se un’ombra ci prende, può
mangiarci. Perché hanno i denti aguzzi. Molti denti aguzzi. E hanno
sempre tanta fame.
Oggi
c’è il sole, è una bella giornata. Come ieri. Come l’altro
ieri. Vania mi si avvicina:
-Oggi
tu verrai con me.
Dentro
di me sento solo orrore. Però non trovo il coraggio di rifiutare.
Armati di acqua e panini con il salame, ci incamminiamo per il bosco
di betulle. Il primo ruscello. Proprio come dicevano. Poi ancora un
breve tratto di bosco. Vedo un gatto bianco che mi guarda. Gli manca
un occhio. Mi giro per farlo vedere a Vania, ma il gatto è sparito.
Poi il secondo ruscello, la vegetazione diventa sempre più fitta,
c’è molta ortica. Ora capisco perché Vania si è messo i
pantaloni lunghi. Sto zitto e soffro in silenzio. Le gambe bruciano.
Poi all’improvviso eccolo lì. Il vecchio aeroporto militare
abbandonato e pieno di leggende. C’è una pista lunga per il
decollo, un vecchio nastro trasportatore tutto arrugginito, dei
banchi di legno marcio. Una carrozzella per disabile. Quella mi
sembra fuori luogo, e un brivido mi sale lungo la schiena. Vania ride
e scherza. Poi inizia a giocare a nascondino e questo non mi piace.
Improvvisamente
sento ridere. Ma non è Vania. E’ una risata di bambina. Mi giro ma
non c’è nessuno. Penso che anche Vania l’abbia sentita, perché
al grido di “Le ombre!” se la dà a gambe levate, lasciandomi lì
da solo. Ma io non scappo.
Cerco
di vedere meglio. Non si vede nulla. All’improvviso mi sento
toccare i capelli. Un tocco gelido. Mi volto sicuro di non vedere
nulla.
Ma
c’è un’ombra.
Poco
più bassa di me. E’ sfuggevole. Il cuore mi si ferma in gola.
Sento come se avessi un buco che dallo stomaco va diretto
all’intestino.
Dice
qualcosa, ma non riesco a capire. Sono terrorizzato. Poi l’ombra se
ne va.
Poi,
come uno schiaffo inaspettato, spuntano tantissime ombre. Tutte
insieme. Vorrei scappare, ma le gambe sono diventate due lapidi. Le
ombre passano, veloci e sfuggenti. Chiudo gli occhi, sperando che
spariscano. Li riapro e davanti a me c’è una bambina. Riesco a
vederla abbastanza bene. E’ vestita in modo un po’ stravagante.
-Chi
sei?- le domando, il cuore impazzito.
-Chi
sei tu?- Mi risponde lei. La voce è molto lontana.
-Io
mi chiamo Vladimir.- dico con solennità, scrollandomi di dosso
quell’infantile Vova.
-Come
il Presidente.- sorride lei.
Io
non capisco a cosa si riferisca. Il nostro Dirigente di partito si
chiama Michail. Poi mi concentro ancora di più.
Vedo
queste ombre, in molti addirittura hanno i jeans. Sento i loro
discorsi. Una donna tiene un ombrello alzato e spiega qualcosa,
mentre tutti gli altri la ascoltano:
-Questo
era l’aeroporto militare segreto di Pripyat, situato a soli tre
chilometri dalla centrale nucleare di Chernobyl. Il 26 aprile 1986 ci
fu l’esplosione del reattore numero quattro e la gente fu sfollata
con la promessa di poter tornare entro tre settimane. La leggenda
narra che tutte le persone morte nel giro di pochi mesi a causa delle
radiazioni, mantenendo fede alla promessa fattagli, siano tornate e
vivano ancora in paese. Voi credete ai fantasmi? Ora proseguiamo il
nostro macabro tour verso il vecchio luna park…
Perché
parla al passato della data di oggi? Cosa deve succedere? Io le
chiedo di spiegarmi meglio, ma lei non mi risponde. Mi guarda come se
l’ombra fossi io. Sento l’angoscia crescere dentro di me. Perché
riescono a sentirmi solo i bambini e a vedermi soltanto i cani?
Forse
qualcosa ho intuito.
Mi
chiamavo Vladimir. Mia madre sperava che potessi guidare il paese,
proprio come Vladimir Lenin. Sono nato undici anni fa, cioè, il 7
aprile del 1975. Ma qui il tempo si è fermato, ogni giorno è uguale
a quello seguente. E’ in eterno il 26 aprile 1986.
Vania,
fatti da parte, oggi ho io qualcosa da raccontare. Le ombre siamo
noi.
menzione speciale
In cui antiche Storie e antiche Voci in antiche Terre
raccontano
e ammoniscono
Ogni
anno, quando arriva novembre, c'è grande apprensione dalle mie
parti. Consideratela pure una tradizione, un momento di suggestione
collettiva, ma tra le verdi colline e le profonde radici di un popolo
che vive solo della propria terra, c’è ancora chi sussurra che sia
tutto vero. E ogni vigilia di Ognissanti un vago senso di attesa si
spande già nell’ora gelida del primo mattino.
Le
case di pietra, come la nera pupilla in un’iride colorata, riposano
da secoli tra le nebbiose palpebre di colline silenziose, percosse
dai sussurri del vento quando scende la sera. Tutti i giorni sono
uguali, le notti senza luna, illuminate solo dai guizzi di antiche
lampade a olio appese sopra ogni porta.
Dalle
mie parti siamo un grappolo di anime, qualche centinaia di acini in
una vigna abbandonata, tra le pareti verdeggianti che ci circondano,
e nascondono.
Oltre
le casupole di pietra e la chiesa, le lapidi del cimitero si
inerpicano sui fianchi della collina. E ci sono molte tombe, almeno
rispetto ai pochi abitanti. Dalle mie parti, quei defunti non fanno
paura, custoditi dalla terra fredda sotto la collina.
Dalle
mie parti, i vecchi raccontano che, nella notte di Ognissanti, gli
abitanti del camposanto ritornino a far visita ai loro parenti ancora
in vita. Essi gli lasciano le proprie case, il proprio cibo, i propri
letti, ma non si devono mai far trovare di persona, altrimenti le
anime gli chiederebbero di seguirle, di tornare con loro nel luogo
del riposo eterno
Almeno
fino alla vigilia di Ognissanti, tutti i giorni sono uguali, ma
quella
notte
un lungo brivido discende la schiena delle colline, facendo
intirrizzire l’erba e arrivando fino al paese dove, sul davanzale
di ogni casa, le donne hanno lasciato dolci di marzapane. Quella
notte
le case sono deserte, sono andati tutti a dormire, o a pregare,
altrove, ma gli usci sono stati lasciati aperti e, oltre ai dolci sul
davanzale, i tavoli delle cucine sono imbandite come per un
banchetto. Le lampade a olio appese sopra le porte rimangono accese
quasi per indicare la strada a misteriosi viandanti. Nulla di strano,
o almeno di visibile, sembra succedere; ma la mattina seguente si
trovano solo gli avanzi dei cibi e i letti sono sfasciati come se
fossero stati il luogo di un riposo inquieto. Nulla viene portato via
dalle case, tranne i dolci di marzapane.
Da
secoli ormai la tradizione di Ognissanti si ripete. E’ probabile
che sia solo leggenda, che qualcun’altro rubi il cibo sui davanzali
e sfasci i letti. Ma nessuno sa spiegare come e perchè altri possano
trovarsi dalle mie parti, in mezzo alle nebbiose colline che
nascondono la luna.
Io
posso dirvelo. Mi ribellai al volere della mia famiglia, mi ribellai
alla vecchia tradizione e alle mie origini. Ero tornato a casa dopo
essermi laureato in una città lontana. Tornai per un breve saluto
alla mia famiglia, prima di partire per sempre; e non per caso,
adesso credo, capitai nel periodo di Ognissanti. Trovai il mio paese
come l’avevo lasciato. Al primo mattino il gelo faceva ghiacciare i
piccoli corsi d’acqua, le foglie in plastiche pose accartocciate
nella brina e i rami, corrosi dal vento, si levavano in braccia
spettrali attraverso la nebbia. Mi accolse un rintocco di campana, un
suono ferroso e freddo che non copriva il sibilo del vento. Il
camposanto si stendeva, placido e addormentato, tra il vapore che
saliva dalla terra fredda. Le cime delle lapidi levigate dal tempo,
visibili nel loro pallore sullo sfondo verde del fianco della
collina.
Anche
se ero cresciuto lì e conoscevo la tradizione, quell'anno mi
rifiutai di seguire tutti gli altri fuori dalle case. Volevo
dimostrare di non essere più un misero acino d’uva, ma un tralcio
pronto a recidere i propri legami con la terra e a far scorrere buon
vino nella mia gola assetata di razionalità. Provarono a convincermi
a non rimanere, ma quando ormai il marzapane era sul davanzale e i
cibi sulla tavola, io ero ancora lì e il buio già scendeva
implacabile e denso tra le colline. Qualunque parola trovassi adesso
per descrivere ciò che sentii e vidi sarebbe inadeguata: non poteva
essere vero, non avrebbe potuto esserlo, ma lo era. Passi e voci, in
un coro di gole morte e senz'aria, intonavano, in processione, carmi
e rauche preghiere. Oltre la finestra non vidi nulla, da nessun luogo
sembravano provenire le voci ed i passi, eppure da tutti i luoghi li
percepivo intorno a me. Circondato e sordo ad ogni cosa se non le
orrende parole di quel carme stonato, vidi sparire il cibo sul
davanzale, divorato da fameliche ombre senza bocca. Nella mia testa
mi chiesero altro cibo per i loro corpi magri. Ne avevano bisogno.
Avrebbero divorato anche me. Mani invisibili e voci di gole nascoste
mi fissavano con occhi vuoti e ciechi, ma nella mia mente nulla è
rimasto della sarabanda infernale se non la carezzevole proposta di
seguirli lì dove i vivi non possono andare. Sentivo che non c’era
possibilità di scelta per me, non nell’invisibile corteo di
spiriti vagabondi. Una notte, una notte all’anno tornano alle loro
case, dal ricordo di una vita perduta. Seguii le voci, danzai con
loro nell’oscurità. Mi lasciai avvolgere dagli spiriti di ossa,
ossa dense come il buio, e voci palpabili nella mia mente ormai
delirante. Di fronte ai morti affamati, tornati o venuti a prendere
coloro che si attardavano nella loro indecisione, non lasciando ai
morti ciò che è dovuto ai morti.
La
mattina dopo non mi trovarono. Nessuno mi vide più, solo il mio
letto era intatto, un solo dolce di marzapane era rimasto. Mia madre
accese una candela per me, e, ogni giorno, mi porta fiori freschi nel
camposanto in cui ora riposo, sotto una tomba vuota. Dormo,
aspettando la prossima notte, in cui anche io tornerò nella mia
casa, insieme ai miei compagni, per assaggiare i dolci di marzapane
che le donne, come ogni anno, continuano a lasciare sui davanzale.
Tornerò per mangiare, ma non riuscirò a saziarmi di quella vita
perduta di cui ci toccano solo briciole insapori.
menzione speciale
18 maggio 1889
Olga giaceva nel
letto esausta ma felice, stesa tra lenzuola di lino e di pizzo,
impreziosite da ricami che dita esperte avevano realizzato per lei.
Lenzuola ora intrise del sudore e degli umori che il parto aveva
provocato.
In un angolo della
stanza una donna, non più giovane, teneva in braccio un fagotto
piangente e aveva sul volto un pallore quasi più intenso di quello
della puerpera.
- È un maschio? –
chiese la giovane Olga con un filo di voce.
- È un maschio… -
rispose l’altra, e sul viso si intravedeva l’ombra del terrore.
Olga sorrise, si
fece il segno della croce e baciò il ciondolo d’oro che portava al
petto.
- Mettetemelo al
seno, vi prego.
La donna non più
giovane ebbe un’esitazione.
- Forse è meglio
aspettare il medico.
Il medico sarebbe
giunto a momenti. Era stato bloccato da una chiamata urgente,
dell’ultimo minuto.
- Voglio mio figlio!
– insistette Olga.
La donna le avvicinò
il fagotto e glielo porse, facendo attenzione che rimanesse ben
avvolto nella copertina di lana.
Olga strinse il
bimbo al petto, scoprì un seno e fece attaccare il pargolo.
E mentre quello
suggeva, con avidità, il latte materno, Olga scostò la copertina di
lana per toccare e carezzare i piccoli piedi del bimbo.
Urlò Olga.
Il bimbo si staccò
dal seno e iniziò un pianto disperato.
Olga svenne.
18 maggio 1909
Tlac… tlac…
tlac…
Tlac… tlac…
tlac…
La donna scrutò il
buio alle sue spalle ma non riuscì a scorgere nulla. Affrettò il
passo e mentre ansimava l’oscurità pareva inseguirla per le
strade di quella sera londinese e nebbiosa.
Accelerò
l’andatura, cadenzata sul battito del suo cuore sempre più veloce.
Nelle orecchie quel rumore continuava a inseguirla e sembrava farsi
sempre più vicino.
Raggiunse il portone
di casa e con un sospiro di sollievo lo aprì, lo richiuse rapida
dietro di sé e abbandonò il suo corpo contro il legno duro.
Un uomo gli si parò
davanti.
Olga era in piedi,
occhi chiusi e membra tremanti.
- È venuto a
prendermi, lo so, ne sono sicura.
- Ma cosa vai
farneticando?
- Mi ha seguito fino
a casa, era qui fuori, per le vie di Londra. Ho riconosciuto i suoi
passi. Non avrò scampo.
L’uomo la guardò
in silenzio per alcuni istanti.
Forse questa volta
Olga aveva ragione. Aveva sentito anche lui circolare strane voci su
un “mostro” che spaventava i passanti per le vie di Londra.
- Come fai a essere
certa che fosse lui? – chiese, quasi sperando che la risposta fosse
diversa da ciò che temeva.
- Quel rumore,
Nicola, è inconfondibile. Solo i suoi passi possono generare quel
suono. Un suono demoniaco. E il diavolo, questa volta, sta per venire
a prendermi.
Un pensiero veloce
attraversò la mente di Nicola. Tornò al passato, molti anni prima.
Non voleva crederci. Non poteva aver ragione Olga.
- È tornato per
farmela pagare, Nicola.
Olga era in preda
alla disperazione e lui non sapeva cosa fare per consolarla, per
acquietare la sua angoscia.
Si udì fuori della
porta un rumore farsi sempre più vicino.
- Non dovevamo
abbandonarlo. Non ne avevamo il diritto, dopo tutto quello che
avevamo passato per averlo – e la voce di Olga fu strozzata da un
singhiozzo.
Tlac… tlac…
tlac…
Rumori di passi che
si avvicinavano alla casa. Nicola avvicinò l’orecchio al portone e
in quell’istante il campanello suonò.
- Non aprire,
Nicola. Ti prego. Ho paura…
Il campanello
squillò, e squillò ancora per tre volte.
Nicola allora si
spostò alla finestra, scostò leggermente le tendine.
Davanti l’uscio di
casa, illuminato dalla fioca luce del lampione d’ingresso, stava
immobile una curiosa figura. Un uomo, cappello calato sugli occhi,
una corta mantella sdrucita, rimaneva in piedi, austero e un po’
sbilenco sulle sue tre gambe.
Una gamba di troppo
che l’aveva fatto ripudiare dalla madre e dal padre.
Nicola ricordò
tutto, dall’inizio alla fine.
Tre gambe che,
secondo la voce che si era sparsa in città, ne avevano decretato
l’essere più abbietto e mostruoso che popolava le oscure notti
londinesi.
Una gamba di troppo
che né lui né Olga erano riusciti ad accettare. E Nicola era certo
che quell’amore perduto, il loro, sarebbe stato reclamato in altro
modo. Sarebbe stato tramutato in terrore. Perché il loro terrore era
forse la più amara delle vendette.
Questo pensò
Nicola, ma non ebbe il coraggio di dirlo a Olga che si era accasciata
su una poltrona e pareva quasi aver perso i sensi.
Tlac… tlac…
tlac…
I miei passi
risuoneranno per sempre nella tua testa, madre.
Non ti libererai
mai di me.
L’uomo sbilenco
parlava da solo mentre si allontanava dalla casa.
Nel buio la sua
figura deforme era appena distinguibile. E i pipistrelli e gli
uccelli della notte gli volteggiavano intorno, unica compagnia delle
sue passeggiate solitarie.
Ma non sarebbe stato
per molto. Avrebbe dedicato tutto il suo tempo per riproporre ai loro
occhi l’orrore che un tempo avevano rifiutato. Sarebbe stato per
sempre compagno dei loro sogni, incubi, pensieri…
Tlac… tlac…
tlac…
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