L’elfo
Brambilla
Antonio
Borghesi
Certo
che, dove gli altri si chiamano: Galweg, Evromord, Curufinwë,
Cúthalion, Nimloth, Nimrodel, Vëannë
e così via, il fatto di chiamarsi Brambilla non lo avvantaggiava per
niente. Nella Terra di Mezzo lui, l’elfo con quel cognome, era
dileggiato da molti ma soprattutto dai Tuc, la famiglia più ricca
della Contea che viveva in una grande caverna con moltissime finestre
e tunnel, simboli della loro potenza e ricchezza. L’elfo Brambilla,
di statura minuscola ma con mani e piedi grandi, come d’altronde
tutti quelli della sua razza sturoi, non era portato alla violenza
però raggiunti ormai i trent’anni non accettava più gli stupidi
scherzi con cui lo continuavano ad affliggere i Tuc suoi
contemporanei. Aveva pensato di raccogliere delle foglie e radici di
Sambucus Ebulus, tritarle finemente e creare una pozione d’aggiungere
all’ottima birra d’erica, che scorreva a fiumi durante le
numerose feste nei boschi, ma non sapeva come fare per circoscrivere
la dissenteria ai suoi soli tormentatori. Avrebbe dovuto inventarsi
qualcosa d’altro per attirarli nella sua umile casa composta da un
solo tunnel e nessuna finestra, nella quale quegli snob altezzosi non
sarebbero mai entrati senza una proposta di alcunché veramente
eccitante e attrattivo.
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